Sunday, December 09, 2007

Pakistan- USA-Iran: Quattro bugie

Le quattro Bugie

Vecchio,bhè è della metà di novembre,articolo di Barbara Spinelli,dalla Stampa.

D’un tratto non è più l’Iran di Ahmadinejad che mette paura ma il Pakistan: questo Paese dominato da un generale, Pervez Musharraf, che per mantenere il potere ha ordito nell’ultimo decennio due colpi di Stato, il primo nel ‘99 e il secondo il 3 novembre scorso.

Islamabad mette paura perché possiede l’atomica dagli Anni Ottanta, perché è in conflitto permanente con la potenza nucleare indiana e perché il terrorismo che occupa tanta parte del nostro pensare e agire è qui che cresce, s’espande, esporta guerriglieri suicidi nel pianeta.

Il Pakistan non è un male a venire, fantasticato dalle menti assai poco fini dei neoconservatori statunitensi o europei: è un male concreto, acclarato.

Non esiste per ipotesi, come fu il caso dell’Iraq e - in misura minore - dell’Iran. La minaccia terrorista ha le sue radici in questa terra: qui, nei primi Anni Ottanta, nacque e crebbe il moderno gihàd militare ovvero la guerra santa islamica, condotta da guerriglieri addestrati per abbattere regimi invisi o conquistare territori.

Di qui son partite - negli anni della Guerra Fredda, con il silenzio-assenso statunitense - spedizioni ripetute contro l’India in Kashmir, contro l’occupante sovietico in Afghanistan.

I talebani sono il Golem fabbricato dai servizi segreti pakistani (Isi: Inter-Services Intelligence), col pieno appoggio della Casa Bianca e dell’allora premier Benazir Bhutto, che oggi si propone come alternativa a Musharraf. Nella primavera del 1995, quando incontrò Clinton a Washington, Bhutto presentò i talebani come forza filo-pakistana che sarebbe tornata utile per stabilizzare l’Afghanistan. Poco dopo, nel settembre ‘96,

i talebani avrebbero espugnato Kabul (la storia, ingarbugliata, è raccontata nel libro di Steve Coll, La guerra segreta della Cia, Rizzoli 2004). Musharraf si è poi alleato con Bush ma la vecchia strategia di appeasement, assecondatrice dei gihàdisti, resta.

Non è senza significato che Bin Laden e al-Zawahiri vivano in zona pakistana, fin qui senza assilli.

Sono fatti che vale la pena ricordare perché è precisamente con questo male che Washington e numerosi Stati europei e asiatici si sono alleati, dopo l’11 settembre, per combattere quella che abusivamente viene chiamata guerra globale al terrore. L’uso del termine è indebito perché i pilastri su cui il conflitto poggiava sono stati col tempo stravolti: vacillano ormai le decisioni e i discorsi, la verità e perfino il linguaggio.

Invece di esser trattato come problema, il Pakistan ha subito una formidabile metamorfosi ed è diventato agli occhi di politici e di innumerevoli commentatori parte della soluzione. Quella che è una malattia è descritta come medicina, quel che è male è visto come bene.

Il risultato è che da più di sei anni decine di Paesi sono impegnati in una guerra di cui non solo s’ignora la fine, ma che è anche fondata sulla menzogna: proteiforme, istupidente, sistematica. Le ultime mosse di Musharraf aiutano a chiarirne almeno quattro, le più rovinose.

La menzogna numero uno

decreta che il Pakistan è nostro alleato nella guerra al terrorismo.


Se la guerra in Afghanistan sta imputridendo, se le vittorie sul terreno sono sempre più incerte, è perché le componenti gihàdiste dei talebani (solo in parte affiliate a Al Qaeda, più spesso interessate a legittimare l’influenza delle tribù Pashtun) hanno potuto perfettamente riorganizzarsi in Pakistan, dove posseggono basi efficientissime che sostengono dall’esterno le insurrezioni afghane sia contro le truppe Nato, sia contro quelle americane, sia contro i soldati di Karzai. Barnett Rubin, fine conoscitore di quelle zone, ha spiegato bene su Foreign Affairs, nel febbraio scorso, che la resistenza afghana non solo vive dei santuari talebani in Pakistan ma che grazie a essi è quasi imbattibile: «Raramente un’insorgenza viene sconfitta, se dispone di zone protette (safe haven) all’estero».

In Pakistan zone simili si stanno moltiplicando: nel Waziristan del Nord e del Sud ai confini con l’Afghanistan; in Baluchistan più a Sud; recentemente anche nella valle di Swat a Est del Waziristan. Ci sono menzogne funeste e questa lo è: la lotta antiterrorismo ne è uscita a pezzi. Viene poi la seconda menzogna. L’amministrazione Usa ha puntellato Musharraf riempiendolo di denaro (circa 10 miliardi di dollari dal 2001) e senza porre condizioni. Ha tollerato tutto - compresa la consegna ai talebani delle zone protette dunque inattaccabili - pur di non perderlo come alleato. Ha accettato che una guerra inizialmente appoggiata da un vasto numero di Paesi divenisse l’assurdo pantano che è oggi.

La seconda bugia,

sorella della prima, è resa emblematica da una dichiarazione recente del generale John Abizaid. Durante una visita in Afghanistan, nell’agosto 2006, l’allora comandante delle forze statunitensi in Medio Oriente disse testualmente, e senza pudore: «Non credo assolutamente che il Pakistan stia aiutando i Talebani». È una menzogna che ancor oggi impregna i proclami in America ed Europa, nonostante schiaccianti prove del contrario. Se gli europei partecipanti alla guerra afghana vogliono contare qualcosa, non è su regole d’ingaggio o restrizioni (i caveat) che faranno bene a negoziare. Non è neppure sui grandi principi, perché i principi sono ipocrisie quando s’accetta il regno della menzogna. È tutta la guerra che va ridiscussa, alla luce della verità e non di fantasie falsamente machiavelliche: qui non siamo di fronte all’alleanza con un Diavolo minore per sconfiggere il Diavolo maggiore (l’alleanza con Stalin contro Hitler).

Qui ci si allea con il male stesso che si pretende debellare.


La terza menzogna circola indisturbata in questi giorni, è meno idealista e finge persino d’esser realista: Musharraf e i suoi colpi di Stato - si dice - vanno appoggiati perché altrimenti talebani e fondamentalisti prenderanno il potere.


È un falso palese: le misure autoritarie non colpiscono talebani e fondamentalisti, i nemici che il Generale reprime non sono i talebani (cui ha regalato potere, province) ma i democratici e in particolare i giudici desiderosi di restaurare la costituzione e l’imperio della legge, oltre ai giornalisti che appoggiano i magistrati. Il colpo di Stato è stato attuato per mettere a tacere e imprigionare la Corte suprema e il suo presidente, un magistrato assai popolare tra laici e democratici che si chiama Iftikhar Mohammad Chaudry. Manifestanti e giudici arrestati rifiutano le elezioni se prima non viene restituita autonomia alla magistratura e circoscritto il potere dei militari.


La loro battaglia non possiamo scambiarla con una minaccia terrorista, scimmiottando Musharraf allo stesso modo in cui si scimmiotta Putin quando usa slogan anti-terroristi per piegare l’indipendentismo ceceno.

Questo insistere sul pericolo islamico è uno schiaffo alla democrazia. È una beffa cui tanti danno il consenso: Usa e Europa, India, Russia e Cina. Cui inizialmente ha dato il consenso anche Bhutto, che contro l’arresto di Chaudry non ha detto una parola e che solo ieri ha difeso, oltre alla libertà dei giornalisti, anche il presidente della Corte suprema.

La quarta bugia, non meno grande, riguarda le elezioni e la stessa persona di Benazir Bhutto.

Nelle capitali d’Europa e alla Casa Bianca s’è imposta la favola, anziché la realtà: tanto più favola, perché impreziosita dalla moda della donna-al-potere che di questi tempi cattura tante menti intimidite dal femminismo. La storia di Benazir è complessa, torbida: agli italiani che l’ascoltano ricorda in modo impressionante quel che negli Anni Novanta fu chiamato inciucio (sul dizionario Gabrielli è scritto: «Accordo di basso livello tra forze politiche ufficialmente contrapposte, col solo scopo della spartizione del potere.

Dal napoletano ‘nciucio, ‘ngiucio, imbroglio sottobanco»). Bhutto è tornata in Pakistan per ridurre il potere di Musharraf ma promettendogli un’alleanza. In realtà, l’uno e l’altra hanno un contenzioso grave con la magistratura: Musharraf per corruzione e violazione della Costituzione, Bhutto per corruzione. Ambedue vedono di buon occhio una riduzione dell’autonomia giudiziaria, e nelle settimane scorse non sono sembrati in disaccordo su questo.

Ma la forza del movimento può trascinare Benazir, che ieri s’è decisa a rompere il complice silenzio e ha tentato di visitare il presidente della Corte suprema agli arresti domiciliari. Chiedere immediate elezioni, come fa Bhutto e come chiede perentoriamente Bush, è menzogna impudente in modo speciale. Nessuno la contesta fuori dal Pakistan, ma all’interno gli oppositori non esitano a denunciare l’inganno e non vogliono ingoiarlo: andare al voto prima che siano restaurate l’autonomia del giudiziario e la Costituzione è non solo un bluff ma un’offesa. Un’offesa a dissidenti che nulla hanno di talebano, e alle tradizioni giuridiche e liberali che l’Occidente pretende difendere nel mondo

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